Per diversi motivi è forse una delle feste tradizionali più belle e curiose che ci siano in Maremma. Ho partecipato proprio ieri sera a quello che viene chiamato “rito”, ancora prima che gioco o palio, proprio per ribadire quanto magica e ancestrale sia questa tradizione. Con il bosco, il fuoco, la notte, il vino e la violenza.

Un evento difficile da fotografare, nel buio pesto della campagna tra azioni rocambolesche. Vietata la luce, niente appoggi, tra spintoni nel fango e sterpi; e piogge di braci scagliate dai calci nel fuoco. L’evento si svolge sempre lo stesso giorno dell’anno, in qualunque condizione meteorologica.

Succede così: la mattina del 24 novembre viene issato un tronco di cerro, lo “stollo”, attorniato da una catasta di scope e fascine di erica, la “focarazza”.

Dopo la benedizione, la sera stessa, viene appiccato il fuoco. Ci vuole un certo coraggio per star vicino alla catasta che fino ad una certa ora arde con fiamme altissime illuminando l’intera collina che sovrasta il borgo di Santa Caterina. Vengono spruzzate fiammate di gasolio, i partecipanti alla sfida si scaldano con vino e calci nella brace proiettando tizzoni ardenti ad un pubblico che continuamente si stringe e rifugge.

 

Una volta rimasto lo stollo incandescente, inizia la vera sfida. Vince chi lo conquista e lo issa sulla facciata di un qualsiasi edificio della propria contrada.

Il gruppo affronta il fumo e le braci per disancorare il tronco dalla terra, arrampicandosi uno sull’altro, ondeggiando in aria di peso, cercando di sbilanciare il fusto fino a farlo precipitare a terra. Una volta disancorato, il tronco rotola per qualche metro poi si ferma nella stretta del mucchio. La lotta è senza esclusione di urla, colpi, cariche e rincorse.

A fuoco ormai spento sull’intera collina cala un buio profondo, non accompagnato dal silenzio.  Centinaia di persone vagano nel buio: seguono, incitano, fuggono per non lasciarsi travolgere. Nella notte tra le frasche e la boscaglia si odono urla, richiami, risate, fischi, tonfi e bestemmie. I contradaioli insultano le luci che si accendono dagli smartphone.

Parte del tempo le squadre lo passano abbracciando di peso il tronco a terra, per evitare che venga sollevato e trafugato. Quando accade, la strategia è di aggrapparsi e provocare l’impuntamento. I partecipanti allora ribaltano, incespicano, si impigliano, cercando di non lasciare mai la presa dalla corteccia. Come cani aggrappati con i denti ad un bastone. I bambini corrono incitano e si vantano dei padri schiacciati nel fango e impigliati tra i rovi. Disposti a non perdere il fusto a qualunque costo.

Quest’anno, fatto storico, lo stollo è stato condotto e conquistato sulla facciata della chiesina. Ed è proprio sul luogo della conquista che si tiene la festa. Quindi ogni anno nessuno sa dove si terrà  poi il banchetto: vino e salumi vengono portati sul posto con un camion. I vecchi con gli strumenti fanno la musica.

Il giorno dopo lo stollo verrà  tagliato in tanti pezzi quanti i partecipanti della sfida; ognuno porterà  a casa un pezzo che brucerà  definitivamente nel caminetto. Le ceneri saranno disperse nei campi come auspicio di fertilità  e abbondanza.

Se voi portaste qui uno straniero senza spiegargli nulla, penserebbe di essere circondato da un paese di matti; o di essere tornato indietro nel tempo e di assistere ad un rituale etrusco.