In viaggio in Marocco pochi mesi fa, ho avuto modo di dichiarare in almeno un’occasione, parlando con la gente del posto: <<Questa è la piazza più brutta del mondo!>>.

E ne sono perfettamente convinto.

Credo sia l’esempio evidente di un luogo urbano dove, come in rari casi forse l’unico, non è l’architettura a fare l’attrazione. Jemaa el-Fnaa è il cuore pulsante della città di Marrakech, ma la sua bellezza non sono i materiali, le mura, i monumenti, i palazzi; non ci sono ricchezze architettoniche, tesori artistici, prospettive o armonie geometriche di marmo. Ci sono solo le persone.

Se si esclude le Koutoubia, l’enorme minareto sul lato est, la piazza è un enorme confuso perimetro di ristoranti, locali da tè e negozi. Di notte, in lontananza, le grandi terrazze dove si sorseggia il tè marocchino posso somigliare a delle grandi navi ormeggiate ad una banchina del porto.

Il bello di questa piazza è invece il fervente crogiuolo di vita che la popola: il caos umano, il crimine, il mercanteggio, gli animali esotici: serpenti, scimmie, stelle di mare, asini e cammelli; e montagne di merce, la punta dell’iceberg, il campione, la vetrina, l’assaggio, il prezzo peggiore che puoi trovare nei suk.

Un gigantesco orologio umano che dura tutto il giorno e si ripete sempre uguale, una clessidra di sabbia che dalla mattina alla sera lentamente ruota, si mischia e si trasforma; un formicaio umano di mercanti e clienti. Dall’alto di una delle terrazze, al tramonto se ne percepisce l’insieme brulicante: a quest’ora i giochi notturni, i fumi delle griglierie e le lanterne di latta che brillano hanno la meglio sulle distese di cuoio e frutta.

Insomma è il contenuto e non il contenitore della piazza ad essere straordinario: sono le persone. Quando in passato ho avuto modo di vedere alcune fotografie della Jemaa el-Fnaa, ho davvero pensato che fosse solo un perimetro di muri rossastri: è solo visitandola che si comprende il fascino, la vastità culturale di questo luogo di incontro.